Tradizionalmente i prodotti vengono fabbricati e immessi in commercio da aziende che, sulla base delle norme previste dal Codice Civile e dal Codice del Consumo, si assumono la responsabilità della loro integrità e del loro corretto funzionamento. L’introduzione nel mercato di stampanti 3D a basso costo rende possibile per qualunque hobbista realizzare manufatti che possono avere la caratteristica di essere complessi, sofisticati e pericolosi. A tale fabbricazione, inoltre, può conseguire la scelta dei makers di vendere questi prodotti, che, una volta acquistati e utilizzati dall’utente finale possono provocare danni a cose o persone.
Accanto al danneggiamento di altri oggetti (si pensi ad una cover per smartphone o tablet stampata in 3D che rovina la superficie del device) vanno considerate le lesioni personali che l’utilizzatore finale o altri soggetti possono subire. Il caso più inquietante riguarda le pistole e i fucili stampati in 3D (peraltro in materiale plastico, il che li rende non rilevabili dai metal detector). Ma basti immaginare anche semplicemente protezioni per coloro che fanno sport estremi o componenti di apparecchiature fabbricate nell’ambito dell’industria automobilistica o aerospaziale. Se difettosi, numerosi prodotti stampati in 3D possono comportare pericoli per l’incolumità o danni alla salute di entità notevole.
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A fronte di tali rischi non risulta, però, ancora chiaro su chi incomba la responsabilità per i danni nei confronti dell’utente ferito a causa del malfunzionamento di un prodotto stampato in 3D. Una sicura attribuzione di responsabilità appare particolarmente complessa per la molteplicità di cause alle quali può essere ricondotto il difetto del prodotto stampato.
Ad essere alterato può essere, ad esempio, a monte, il prodotto originale poi scansionato; ma errori possono intervenire anche durante il procedimento di scansione oppure possono esservi inesattezze nel file digitale. Può, inoltre, essere difettosa la stampante stessa, così come esiste l’eventualità che le materie prime impiegate siano inadeguate o presentino anomalie. Non va infine sottovalutato l’errore umano nell’utilizzo della stampante o nella combinazione dei materiali, che talvolta può anche scaturire da istruzioni e avvertenze (fornite in dotazione con la stampante) non correttamente seguite o di per sé inadeguate.
Una così vasta serie di cause è strettamente connessa al fatto che nel processo produttivo di stampa 3D sono coinvolti più soggetti: in particolar modo il digital designer che ha scritto il codice che ha dato istruzioni alla macchina, il produttore della stampante 3D, e il maker che ha creato e venduto il prodotto difettoso; ma possono essere implicati anche il fornitore delle materie prime, il distributore e il retailer.
In un simile scenario risulta evidente come il 3D printing spezzi la classica identità tra produttore e venditore, da un lato, e azienda dall’altro, turbando la tradizionale disciplina della responsabilità da prodotto e rivelando l’assenza di una specifica legislazione al riguardo, cui consegue il rischio di una eccessiva discrezionalità da parte dell’autorità incaricata di giudicare le controversie insorte in seguito a danni causati da prodotti stampati in 3D.
È, dunque, opportuno che tutti i soggetti coinvolti nel processo di stampa 3D predispongano una adeguata autotutela, affrontando a livello contrattuale le questioni di responsabilità per i danni, mediante l’inserimento, negli accordi definiti con i loro partner commerciali, di determinate condizioni di acquisto o disclaimer di responsabilità, e attraverso la stipulazione di polizze assicurative appropriate che dovranno essere adeguate ai nuovi rischi, alcuni dei quali noti, ma non disciplinati dal diritto, ed altri, allo stato attuale, ancora sconosciuti.
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